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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (14 dicembre 2025)
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  • Il cardinale Souraphiel intervistato da Gioele Anni a Lugano

    «In guerra prima muore la verità, poi la convivenza fraterna»

    Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ha 73 anni e per gran parte della sua vita ha avuto a che fare con situazioni di guerra e violenza. Nominato vescovo nel 1997 da papa Giovanni Paolo II e poi cardinale da papa Francesco nel 2015, mons. Souraphiel oggi è il metropolita della Chiesa di Addis Abeba. Come leader religioso ha mediato per la pace tra Etiopia ed Eritrea e oggi presiede la Commissione nazionale per la riconciliazione mentre ancora proseguono le tensioni tra il governo centrale e la regione del Tigray.

    Eminenza, lei viene da un Paese che ha vissuto molti conflitti; come si sente in questi giorni durante i quali l’Europa è sconvolta da una nuova guerra?
    Mi sento molto triste, perché so che la guerra causa sempre molta sofferenza. Durante ogni conflitto ciò che muore prima è la verità, e subito dopo la convivenza fraterna.

    Qual è il suo consiglio ai cristiani in Europa? Come si può portare la pace nella quotidianità?
    È fondamentale pregare perché ciò avvenga, oltre a rispettare ognuno e non dare ascolto ai linguaggi di odio. Con la preghiera e il dialogo è possibile fermare la guerra, ma dobbiamo farlo al più presto.

    I cattolici nel suo Paese sono una minoranza, quasi il 2% della popolazione: qual è il punto di forza della Chiesa cattolica in Etiopia?
    La Chiesa cattolica è una minoranza, ma i cristiani sono la maggioranza: gli ortodossi e i protestanti rappresentano infatti più del 62% della popolazione etiope. La forza della Chiesa cattolica è nell’essere minore e i minori sono umili e costruiscono ponti tra i più grandi. Grazie all’aiuto internazionale della Chiesa universale, abbiamo molti servizi sociali che supportano tutta la popolazione, senza distinzione. Per questo siamo amati da tutti e anche apprezzati dal governo.

    In passato, durante il regime comunista, lei è stato anche imprigionato a causa della sua fede. Che cosa ricorda di quei sette mesi che ha trascorso in carcere?
    Fu un periodo terribile segnato dal governo marxista in Etiopia in cui tutta la popolazione soffrì. I comunisti volevano distruggere la Chiesa cattolica; i missionari europei e americani che operavano nel Paese furono cacciati e io rimasi da solo fino a quando mi arrestarono. Per un mese rimasi in isolamento e dopo sette mesi mi liberarono. Tornai dunque ad Addis Abeba, da dove partii per Roma per studiare Scienze Sociali all’Università Gregoriana. Quando tornai in Etiopia il governo era cambiato e decisi di andare in carcere a trovare colui che mi aveva imprigionato.

    Perché lo ha fatto?
    Ho imparato da San Giovanni Paolo II che andò a trovare colui che attentò alla sua vita: la forza della Chiesa cattolica e di quella Ortodossa è racchiusa nel perdono, un atto difficile ma che libera sé stessi e gli altri.

    L’Etiopia è un Paese che accoglie molti migranti, circa 800 mila; cosa potete insegnare sui fenomeni migratori a noi europei?
    Tutti noi possiamo essere migranti; quando la gente soffre cerca di chiedere aiuto in altri luoghi. L’Etiopia è un Paese pacifico che accoglie la gente non perché ne abbia i mezzi, ma perché li riceve e li accoglie con amore e rispetto, questa è la cosa più importante.

    Migranti è anche la condizione di tanti etiopi…
    Più del 70 % della popolazione etiope è sotto i 30 anni; molti di questi giovani vogliono una vita migliore e cercano dunque di raggiungere l’Europa, piuttosto che l’America o l’Arabia Saudita pensando di trovare il paradiso, ma la situazione non è così e rimangono delusi. Il nostro compito è quello di cambiare la situazione da dentro.

    Possiamo dire che le Chiese africane sono un laboratorio del dialogo ecumenico e anche interreligioso?
    Sì, in Etiopia abbiamo un Concilio interreligioso all’interno del quale lavoriamo insieme, cattolici, ortodossi, musulmani, specialmente sulle questioni che interessano tutti, la malaria, il covid, i migranti, la situazione delle donne, piuttosto che dei giovani o degli anziani. Siamo convinti che con il Concilio delle varie religioni si possa rafforzare la convivenza.

    La Chiesa sta vivendo un tempo di Sinodo mondiale. Quali sono le sue aspettative per questo percorso?
    Ringrazio papa Francesco per aver invocato questo Sinodo: ho un grande desiderio, di arrivare alla conclusione di questo processo fra due anni e sentire tutti i punti di vista nel mondo. C’è bisogno di ascoltare; solo in questo modo il Sinodo potrà aiutare ad avvicinare la gente.

    Si può dire che è un tempo per la Chiesa di ascolto e non di giudizio…
    La Chiesa cattolica è una Chiesa universale e anche se con tanti problemi deve continuare ad essere la voce morale del mondo. Papa Francesco ha detto «Meno parole e più ascolto; seminiamo semi buoni per avere frutti buoni».

    Gioele Anni

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