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    La qualità umana dei luoghi di cura. Il 18 ottobre il dibattito all’USI

    di Laura Quadri

    Ben oltre il semplice tentativo di alleviare un sintomo o di lenire la sofferenza immediata, si protende la cosiddetta “arte della cura”: saper guardare al “paziente” – e ai suoi famigliari – come uomo, individuo dalle personalissime esigenze sia fisiche che psicologiche e, non da ultimo, spirituali. Condizione su cui oggi l’ambiente ospedaliero, anche ticinese, si interroga sempre più spesso, alla ricerca di un modo non solo clinicamente ineccepibile di stare accanto al sofferente, ma anche più “umano”. Ne parlerà il prossimo 18 ottobre, nell’ambito della serata di dibattito “La qualità umana dei luoghi di cura”, all’Università della Svizzera italiana, il dottor Carlo Mandelli, Membro di Direzione dell’équipe della clinica psichiatrica luganese “Viarnetto”. Con lui interverranno  Rossano Albatici, professore all’Università di Trento, Sabra Miroglio dello Studio “Miroglio e Lupica” a Torino e i professori USI Jeanne Mengis e Giacomo Jori.

    Dottor Mandelli, perché dedicare in sede universitaria un dibattito sul tema della qualità umana dei luoghi di cura?

    «Lo spazio di riflessione interdisciplinare che ci siamo dati il 18 ottobre rappresenta un modesto tentativo per fare il punto su come diverse competenze possano concorrere a produrre promozione per la salute e il benessere delle persone. Umanizzazione della cura significa porre di nuovo al centro del processo "riparativo" la persona nella sua interezza e nel suo valore specifico. Infatti negli ultimi decenni il mito dell'iper-tecnicismo ha spesso rischiato di collocare non più la persona sofferente al centro del trattamento sanitario, ma la sua malattia, il suo sintomo, il danno d'organo, scotomizzando che l'evento malattia rappresenta un continuum nella vita di una persona che deve essere considerata in tutto il suo contesto esistenziale. Naturalmente ciò non deve significare un ritorno al passato, in una idealizzazione di epoche felici di una medicina "migliore", ma deve provare tenere insieme il progresso scientifico con un approccio empatico».

    Quali modifiche al sistema sanitario implicherebbe una cura “più umana”?

    «Nel campo delle cure psichiatriche, che sono l'ambito in cui opero presso la Clinica Viarnetto, l'umanizzazione del trattamento ha radici antiche; basti pensare alla "terapia morale" di Pinel, psichiatra francese a cavallo tra XVIII e XIX sec. che alla Salpetrière fece liberare i malati di mente dalle catene che fino ad allora li contenevano. Né possiamo dimenticare le battaglie anti-istituzionali che si sono combattute in Italia alla fine degli anni '70, con alla testa lo psichiatra Basaglia, per arrivare al superamento dei manicomi, vere e proprie istituzioni totali, in cui il malato veniva inghiottito da un meccanismo disumano, che poco aveva a che vedere con la cura, ma più spesso con il controllo sociale. In tal senso non possiamo dimenticare neppure l'uso mostruoso a fini politici fatto della scienza psichiatrica da tanti regimi totalitari».

    Cosa si intende, realmente, per “salute” del paziente in questo contesto?

    «La presa a carico dell'individuo malato, secondo il modello di lavoro che utilizziamo presso la Clinica Viarnetto, ma che può essere applicato in qualunque campo della medicina, è quello dell'approccio integrato, vale a dire quello stile di trattamento che si rifà al modello bio-psico-sociale dell'OMS, secondo cui la patogenesi di ogni malattia è di tipo multifattoriale: complessità biologica dell'individuo, sviluppo psicologico personale, ruolo dell'ambiente. È importante considerare la malattia, come si diceva prima, non uno strappo nel tessuto esistenziale del paziente, quanto piuttosto una rottura dello stato di benessere massimo al quale tutti dovremmo tendere. Ricordiamo infatti che secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità la salute non è l'assenza di malattia, bensì "lo stato di totale benessere fisico, mentale e sociale". Ne deriva quindi che per ripristinare questo stato di benessere non ci si può soltanto rivolgere alla cura della disfunzione patologica, ma va considerato l'essere umano nella sua integrità».

    Che spazio c’è per la famiglia del malato in un contesto di cure più “umane”?

    «La famiglia sta al primo posto in questo lavoro di presa a carico, famiglia spesso dimenticata o considerata un intralcio. In realtà la famiglia può essere vista come una risorsa preziosa nel lavoro terapeutico, un alleato che però va aiutato a comprendere il suo ruolo e la sua importanza. Questo tipo di presa a carico è ormai prassi diffusa in psichiatria».

    Con il concetto di cura più “umana”, si intende anche prendere in considerazione aspetti spirituali inerenti il paziente?

    «Ovviamente all'interno di questo spazio di cura trova posto ogni aspetto di carattere psicologico ed emozionale, compreso quello spirituale. Non dimentichiamo che la malattia ci costringe al confronto serrato con alcuni interrogativi di carattere etico ed esistenziale che sono di natura intrinsecamente spirituale: il senso della sofferenza, il fine vita, il valore dell'esistenza. Ogni persona declina secondo la sua sensibilità il porsi di fronte a questi temi, spaziando dalla fede religiosa, alla riflessione filosofico, all'approccio materialistico e il medico deve essere in grado di accogliere senza giudizio la via trovata dal paziente».

    Il dibattito “La qualità umana dei luoghi di cura” avrà luogo, il 18 ottobre, presso l’Aula A32 del Campus ovest dell’USI, dalle 17.30 alle 19. Ulteriori informazioni: La qualità umana dei luoghi di cura | USI - Comunicazione.

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