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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (15 dicembre 2025)
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  • "Ritornare in sé. L'interiorità smarrita e l'infinita distrazione". A colloquio con il filosofo Fabio Merlini

    È di recente pubblicazione «Ritornare in sé. L’interiorità smarrita e l’infinita distrazione», il nuovo saggio del filosofo ticinese Fabio Merlini, attraverso il quale riflettere su temi come l’interiorità dell’uomo e ciò che lo allontana da essa da un punto di vista filosofico. Scopriamo con l’autore, recentemente intervenuto anche alla Biblioteca Salita dei Frati per la presentazione del volume, alcuni aspetti di questa indagine.

    Professor Merlini, come nasce l’esigenza di questo libro?
    Dopo la pubblicazione di diversi libri in cui cerco di capire come nascono le principali contraddizioni e i principali disfunzionamenti della nostra società, sentivo il bisogno immaginare qualche via di uscita. Non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso l’attivazione di forme di consapevolezza capaci di proteggere il mondo dal nostro narcisismo e noi stessi dalla sua potenza normativa, che oggi ha il volto di una economia spietata e predatoria.

    Il libro si apre con una importante citazione da Pascal, abbastanza inequivocabile, e nella quale si dice che “la distrazione ci divaga e ci fa giungere inesorabilmente alla morte”. Mentre il titolo del volume richiama una distrazione “infinita”. Quali sono le più temibili distrazioni dell’uomo d’oggi?

    Il libro recupera certamente più antichi saperi, che mostrano come nella sostanza i problemi esistenziali, al di là della storicità di ogni situazione congiunturale, siano in gran parte sempre gli stessi. Ma è proprio questa storicità che occorre interrogare se vogliamo comprendere dove siamo, o forse addirittura dove siamo finiti oggi. La distrazione infinita cui alludo nel sottotitolo si riferisce a quello che è forse uno dei tratti antropologici più problematici del nostro odierno modo di essere. Alludo a quel continuo processo di estroflessione - veicolato dai dispositivi con i quali lavoriamo, ci informiamo, comunichiamo e in generale operiamo - che agisce come un potente polarizzatore della nostra attenzione, della nostra curiosità e dei nostri interessi. Li cattura imperativamente, così che ci ritroviamo inseguire sempre qualcosa, con l’ossessione di non “perderci nulla”.

    Ma come sappiamo: chi è dappertutto non è mai da nessuna parte.

    La sua indagine è posta sotto il segno di tre grandi nomi, cui sono dedicati rispettivamente tre capitoli: Goethe, Gould e Proust. Cosa rappresentano, nella sua lettura, questi tre personaggi e perché proprio loro e non altri?

    Di Goethe, mi interessava il suo viaggio a Roma. Giunge in città, che per i letterati della sua epoca rappresentava il mito di una antichità e di una classicità ancora in qualche modo tangibile, e ne rimane talmente folgorato da perdere la testa. Consuma “vedute”, monumenti, rovine, opere d’arte come oggi si consumano le merci, quando ci si lascia sedurre dal loro desiderio di farsi divorare.  Una potente allegoria della condizione bulimica odierna (dove tutto viene risucchiato nella logica della merce). Ho cercato di leggere le pagine di diario del soggiorno romano, con una attenzione quasi ossessiva alla sua progressiva presa di coscienza: questo continuo essere fuori di sé, determinato dalla seduzione di una città che scatenava emozioni prive di riflessività, doveva subire un arresto. Goethe ci mostra con quali strategie ha provato a farlo.  Gould e Proust, li ho interrogati, invece, per la loro straordinaria capacità di dare forma, l’uno con l’interpretazione musicale, l’altro con l’arte della scrittura,  a quello che chiamo il “sentimento dell’interiorità”. Senza però alcun ripiegamento su se stessi, ma al contrario per assicurare al mondo esterno chances di comprensione in cui interno e esterno si compenetrano virtuosamente, alimentandosi a vicenda.

    Con quali parole, infine, spiegare all’uomo contemporaneo, l’importanza di coltivare la propria interiorità? E perché, da filosofo, lanciare questo appello?

    Con le parole semplici del buon senso: arriva un momento, se le condizioni sono date, in cui ci chiediamo che senso ha ciò che facciamo e perché correre tanto?

    Quando si insinua il dubbio che stiamo girando a vuoto, qualcosa può prendere avvio: qualcosa che ha a che vedere con la necessità di venire a capo di sé.

    Laura Quadri

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