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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (12 dicembre 2025)
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  • Myriam Di Marco

    Una ticinese ci testimonia la speranza e le fatiche della gente in Terra Santa

    da Israele Myriam di Marco*

    «Ti capisco, anche i miei figli che vivono a Tel Aviv non se la sentono di venire qui al Nord. Hanno troppa paura. Non ti preoccupare, ci vediamo a Haifa». Risponde al telefono con tono comprensivo un’amica anziana che abita a qualche chilometro dal Libano. I suoi nipotini ormai li vede di rado: troppo è stato lo shock del 7 ottobre. Davanti ad un brunch israeliano sulla via principale della città mi confida che non ha ancora superato il trauma: corsa immediatamente quel giorno dalla figlia con i bambini piccoli al centro di Israele per sostenerla, lasciata sola dal marito chiamato al fronte. Tra le strade della città sembra tutto normale, un tranquillo giorno di Shabbat in cui sono aperti solo i negozi dei cristiani e dei musulmani. Incontro anche un caro amico arabo cristiano: vorrebbe passare qualche giorno di spensieratezza in Europa con la famiglia, ma la guerra non è ancora finita; spensieratezza soprattutto per le sue figlie spaventate dagli scoppi assordanti in cielo causati dalle esplosioni dovute all’Iron Dome, sistema missilistico di difesa, che intercetta i droni dal Libano prima che cadano al suolo. Così come i boati in mare causati dalle esercitazioni. «Non ci sono pellegrini, Mariam. Non c’è nessuno. Compra qualcosa, hai il dovere morale di supportarci come puoi». Tutto è aumentato a causa della guerra, i prezzi sono alle stelle, eppure vedo decine e decine di cantieri nuovi soprattutto sul lato del Carmelo francese. Palazzi immensi che si ergono come guardiani di mattoni a difesa della costa del Mediterraneo. Ma non vi è manodopera palestinese, o almeno ne entra pochissima a lavorare, per cui la popolazione asiatica è in aumento. Ovunque scritte sui muri e cartelli con la frase «Bring them home now» e la frase in ebraico «insieme vinceremo» sui bus di linea dopo il numero e la destinazione come anche nei luoghi pubblici. Sono segnali di una consapevolezza permanente ancora non risolta: una parte di israeliani (senza distinzione di razza e religione) è nelle mani di un gruppo terroristico che vuole bruciare ogni tentativo di convivenza. «La guerra ha cambiato tutti, ci guardano con sospetto, appena pubblichiamo qualcosa su un social network veniamo perquisiti e interrogati. Ma noi cosa centriamo? Noi vogliamo vivere qui», singhiozza una ragazza, mentre le scendono le lacrime sul suo viso giovane bagnando lo chador. Prima di ripartire per l’Università di Gerusalemme dove frequento per quattro settimane un corso di aggiornamento sullo Stato di Israele da un punto di vista storico e politico, osservo il porto navale e ascolto la quiete della città in riposo. I mercantili vengono scortati fino al largo dalla marina militare. Non ci sono manifestazioni come nella Città Santa dove quasi quotidianamente si mostra rabbia e voglia di giustizia sia da parte ultra-ortodossa, per non voler partecipare alla leva militare, sia da parte laica per un governo che sembra non stia risolvendo nulla, ergendosi tutti ad esperti militari. A Haifa si percepisce un senso di impotenza, tristezza, ansia per gli avvisi e le foto sui gruppi whatsapp delle famiglie: i propri bimbi gettati a terra con le manine sulla testa perché è suonata la sirena. La vita quotidiana continua in tutta Israele, ci si alza la mattina, si va a scuola e al lavoro, si torna la sera, si abbracciano i propri cari, sospirando e sperando in una prossima risoluzione che possa distendere la tensione di tutti i suoi cittadini quando chiudono gli occhi la notte.

    Leggi anche l'intervista della nostra redazione al Custode di Terra Santa Padre Patton.

    *docente e ricercatrice alla Facoltà di Teologia di Lugano dell’USI

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